quarta-feira, 28 de dezembro de 2005

Une Aventure de Billy Le Kid a.k.a. A Girl is a Gun, di Luc Moullet

Une Aventure de Billy Le Kid
Scansati, Trinità...

lunedì 30 agosto 2004
di Nicola T. Ramponi

Hear Ye! Hear Ye!
An Astounding Appendix of Adventure on How William Henry Bonney, better known as the legendary Billy The Kid, Found Richness and Misery in this Hard life lesson: A Girl is a Gun!
All this in a Dyme novel of Lust and glamorous Violence by tremendous Texas-tales teller Luc Lamour!
(tratto da "Purple Pulp Phiction" n 241).

Strano oggetto non facilmente identificabile, questo Une Aventure de Billy Le Kid. Parto di una mente altrettanto sfuggente e discretamente poliedrica, quella del Cahier, poi regista (naturalmente!) e attore comico, poi Professore alla Sorbonne nouvelle, Luc Moullet.

Qui in Italia ben poco si era visto della sua produzione cinematografica prima del Festival di Genova 2004, e lo si conosceva tutt’al più per la sua encomiabile attività di critico e saggista ("La Politique des Acteurs", 1993, Edition Cahiers du Cinéma, ne è un buon esempio). Il suddetto Billy Le Kid, poi, non ha mai visto un’uscita al cinema nemmeno nella natia Francia, ed è probabilmente più conosciuto in America latina, ma soprattutto in Messico, col titolo alternativo Inglese A Girl is a Gun. Da cosa nascono le mie perplessità su questa bizzarria Post-Nouvelle Vague del 1971? Il fatto è che il ripensare alla sua visione rende difficile collocarla in un territorio filmico facilmente riconoscibile. È una parodia? Sicuramente la riconoscerebbe come tale Genette che, nella letteratura Europea classica, individua per la parodia un campo ben ristretto e delimitato: è parodistico l’applicare il più letteralmente possibile uno specifico testo "nobile" ad una azione "bassa", assai diversa dall’azione nel testo originario ma che tuttavia presenti delle analogie sufficienti a permettere l’operazione. E questo procedimento, in Une aventure de Billy Le Kid avviene in molte delle scene clou: appena iniziato il film Billy, interpretato da un Jean Pierre Léaud "che non fa nulla per sembrare americano" (dice acutamente Oreste De Fornari), dopo aver assaltato una diligenza e aver massacrato i passeggeri si ritrova a dover finire l’ultimo di essi, in fuga ma ancora vicino. Ecco allora l’infallibile pistolero estrarre la sua "Widow Maker" –bang, bang, bang, bang, bang, bang, etc, e mancare ripetutamente il fuggitivo da distanza quasi nulla. Eppure, se lo strano lavoro di Moullet è una parodia, non lo è del Western che stava finendo di impazzare in tutto il mondo in quel periodo: non è parodistico, per intenderci, riguardo agli stilemi dello spaghetti western, e non lo è certamente di un grandissimo western all’italiana d’oltreoceano come il Pat Garret e Billy The Kid di Peckinpah (anche perché il film di Peckinpah è del 1973…). Questo è Billy Le Kid, e in questa minuscola particella sta il nocciolo della questione e delle differenze. Sottoscrivo completamente l’affermazione, sempre di De Fornari, che questo film "assomiglia…alle recensioni francesi dei film americani", dei grandi e piccoli western della Hollywood della Golden e Silver age. Forse il miglior modo per accostarsi al film è proprio questo, che però è anche il più banale: Il Frame è la nouvelle vague, con il suo stile, il suo modus operandi, i suoi tic (lo straniamento dello spettatore e dei personaggi, il gusto per l’assurdo, l’improvvisazione ed il pastiche, ma soprattutto il gioco con i codici del cinema di genere.). Eppure, proprio guardato con questi occhi il film mostra tutti i suoi limiti, soprattutto paragonato alle opere dei mentori di Moullet, Truffaut e Godard. Allora meglio riportarlo nell’alveo del film di genere, della parodia? O meglio considerarlo un film manierista, come lo furono, per Serge Daney, le opere di Leone? Bisogna premettere, però, che per Daney manierismo non è una categoria sminuente o tanto meno insultante: "Cos’è un grande manierista? È qualcuno che lavora pazientemente ad una certa anamorfosi e che conosce intimamente l’immagine, il viso, da cui è partito…". E, stiamone pur certi, il modello di partenza Moullet lo conosceva benissimo. Eppure, spesso, in Une Aventure de Billy Le Kid si arriva ad una deformazione così estesa da raggiungere l’irriconoscibile, e il risultato è più vicino a un Trinità (o meglio a Provvidenza, più slapstick comedy ancora…) la cui sceneggiatura sia stata rivista da Tati, che a qualunque cosa abbia mai azzardato Leone.

Le perplessità rimangono, e temo che non verranno risolte ad una (alquanto improbabile) seconda, terza, quarta…visione. Comunque un film consigliato, proprio per la sua irriducibilità, per l’umorismo di Moullet (che però, a mio parere, risulta più azzeccato per il cortometraggio…) e per le stupefacenti ambientazioni, un sud della Francia (vicino ad Avignone, pare…) di colori pastosi e di deserti surreali (e in questo apparentabile ad un altro western sui generis, il simbolico El Topo di Jodorowski), ma non improbabili come badlands per banditi in fuga. Forse la ricorsività della trama lo rende un po’ noioso, ma il finale non è telegrafato e le gag a volte sono deliziose. Menzione speciale per Moullet stesso, indiano due volte: la prima nel film, come comparsa, la seconda col distributore per il sud America, che chissà cosa credeva di comprare…

P.S.: Desidero pagare tutti i debiti acquisiti con l’importante (but flawed…) testo di Roy Menarini "La parodia nel cinema italiano", edizioni Hybris, consigliandone vivamente la lettura. Senza di esso, niente parte interessante della recensione…

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